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Ora di Latino


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Probat2017

Dall’a.s. 2016/2017 il Liceo “Galilei” ha aderito all’iniziativa della Rete PROBAT per la didattica delle lingue e delle letterature classiche, finalizzata alla certificazione delle competenze di lingua latina. Si tratta di un modello sperimentale di attestazione delle competenze linguistiche largamente diffuso in Europa, in particolare nei paesi anglosassoni, “a dimostrazione del fatto che l’apporto di una disciplina classica e umanistica alla costruzione delle competenze “atte a comprendere” risulta quanto mai imprescindibile nella società complessa e multiforme nella quale viviamo”.

 

Una scena dal film-commedia Brian di Nazareth [1979], diretto e interpretato dal gruppo comico britannico dei Monty Python

Il 28 novembre 2016 è stato siglato un protocollo d’intesa tra Ufficio Scolastico Regionale del Veneto e CUSL (Consulta Universitaria Studi Latini), in qualità di authority esterna per la validazione qualitativa della prova di certificazione PROBAT, che misura la competenza ricettiva di un brano latino, del quale viene richiesta la comprensione analitica e globale. La certificazione è riconosciuta ai fini del credito scolastico.

All’edizione PROBAT 2017 hanno partecipato 30 istituti appartenenti a tutte le province del Veneto con 3.490 studenti. La percentuale di successo dei candidati è stata del 75,6 per cento.

Nel nostro Liceo hanno partecipato su base volontaria studenti delle classi seconde (per la certificazione di livello A1 o A2) e delle classi quarte (per la certificazione di livello B1 o B2): 64 studenti hanno conseguito la certificazione di livello A1 o A2, mentre 42 studenti delle classi quarte quella di livello B1 o B2.

Proponiamo, inoltre, una breve rassegna stampa sullo studio del latino in Italia e all’estero.
Nicola Gardini, Che cos’è il latino?, in Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti, 2016

Il latino è la lingua dell’antica città di Roma e della civiltà che vi si è originata e di lì si è espansa nel corso di numerosi secoli su un territorio assai ampio, il cosiddetto impero, diventando mezzo di espressione e comunicazione per una gran parte dell’umanità, in forma scritta e orale, e fornendo ancora nell’età moderna, pur molto tempo dopo che il latino parlato ha dato luogo a idiomi distinti (le cosiddette lingue romanze), un mezzo espressivo a poeti, letterati e studiosi di varie discipline.

Il latino è la lingua delle istituzioni giuridiche, dell’architettura e dell’ingegneria, dell’esercito, della scienza, della filosofia, del culto e – quel che qui più interessa – di una florida letteratura, che è servita da modello a tutta la letteratura occidentale dei secoli successivi. Non c’è campo della creatività linguistica e del sapere che in latino non si esprima in modi eccellenti e modellizzanti: la poesia (epica, elegia, epigramma ecc.), l’oratoria, la commedia, la tragedia, la satira, la lettera confidenziale e quella ufficiale, il romanzo, la storia, il dialogo, e poi la filosofia morale, la fisica, la giurisprudenza, la dottrina culinaria, la teoria dell’arte, l’astronomia, l’agricoltura, la meteorologia, la grammatica, le scienze antiquarie, la medicina, la tecnica, la misurazione, la religione.

Il latino letterario, in centinaia di capolavori, parla d’amore e di guerre, ragiona sul corpo e sull’anima, teorizza il senso della vita e i compiti dell’individuo e il destino dell’anima e la struttura della materia, canta la bellezza della natura, l’importanza dell’amicizia, il dolore per la perdita delle cose care; e critica la corruzione, medita sulla morte, sull’arbitrarietà del potere, sulla violenza e sulla crudeltà; e costruisce immagini di interiorità, confeziona emozioni, formula idee sul mondo e sul vivere civile. Il latino è la lingua del rapporto tra l’uno e il tutto; del confronto complesso tra libertà e costrizione, tra privato e pubblico, tra vita contemplativa e vita attiva, tra provincia e capitale, tra campagna e città… Ed è la lingua della responsabilità e del dovere personale; la lingua della forza interiore; la lingua della proprietà e della volontà; la lingua della soggettività che si interroga di fronte al sopruso; la lingua della memoria. L’intenzione parla latino; la protesta parla latino; la confessione parla latino; l’appartenenza parla latino; l’esilio parla latino; il ricordo parla latino.

Il latino è il più vistoso monumento alla civiltà della parola umana e alla fede nelle possibilità del linguaggio. […] è portato per qualunque forma di espressione verbale: la causa giuridica, il racconto storico, i versi, la lettera. E non gli manca niente: è scorrevole e sublime, leggero e grave, dolce e aspro, secondo la convenienza. […]

Dire latino significa prima di tutto dire un impegno totale a organizzare il pensiero in discorsi equilibrati e profondi, a selezionare i significati nella maniera più pertinente possibile, a coordinare i vocaboli in assetti armonici, a esprimere verbalmente anche gli stati più fuggevoli dell’interiorità, a credere nell’espressione e nella dimostrazione, a registrare il contingente e il transeunte in un linguaggio che duri oltre le circostanze.

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Che cosa ereditiamo dalla lingua di Cicerone: il primato della parola, la centralità del tempo e la nobiltà dell’agire per il bene comune

Ivano Dionigi, “La Repubblica”,  31 ottobre 2015

Pubblichiamo parte della lezione di congedo pronunciata ieri sera a Bologna da Ivano Dionigi che dopo sei anni lascia la carica di rettore dell’università di Bologna. La lezione del latino è il titolo del suo intervento, pronunciato come saluto alla città. Oltreché all’università Dionigi è professore ordinario di letteratura latina e presidente della Pontificia Accademia della Latinità

Il latino mi ha insegnato che la parola, il “verbum”, è materia prima: come la pietra, il carbone, il ferro; alla parola tutto è possibile, ammoniva Gorgia: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. La parola “educa”, “affascina”, “convince”: i tre compiti che le affida la retorica classica. Lingua in apparenza familiare, il latino è caratterizzato da parole cariche di una pluralità di sensi, come al centro di un campo magnetico: chi saprebbe tradurre con una parola sola voci come otium, dignitas, pietas?

Lingua duttile ma severa, impegnativa e impegnata, che determina le sorti della politica, della res publica: quando si affermano “i più bravi parlatori”, i comunicatori da quattro soldi, i demagoghi, allora è la rovina. Ce lo insegna Cicerone: «Quando vedo la crisi della nostra repubblica, constato che non piccola è la parte di rovina procurata dagli uomini più bravi a usare le parole (disertissimi homines)».

Il disertus, l’abile parlatore, contrapposto all’eloquens, “colui che parla bene, per bene, in modo etico”, distinto dal loquens, “colui che parla”: tutta la differenza — non solo linguistica ma anche etica e politica — sta in quel fonema e — che perfeziona e nobilita l’azione del parlare. Come vedere il grande nel piccolo: anche questo è un dono del latino.

Noi oggi abbiamo bisogno — non meno dell’ecologia ambientale – di una ecologia linguistica, che ci faccia riscoprire la differenza tra vocaboli e parole portatrici di senso e di verità, alle quali pertanto — al pari delle persone — non si può torcere il collo. Pensiamo alla parola “competere” che nella sua origine di cum-petere non ha nulla di sgomitante, muscolare, darwiniano, bensì significa “dirigersi insieme nella stessa direzione”, “correre insieme verso la stessa meta”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente — diceva Platone — non solo è una cosa brutta in sé, ma fa male anche all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le parole-vocabolo smarriscono la loro capacità e identità comunicativa. Abitudine antica, questa, se pensiamo all’atto di accusa di un personaggio dell’ Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “ impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)».

Il latino mi ha insegnato la centralità del tempo. A Roma tutto è nel segno del “qui e ora” (hic et nunc) e “nel segno del tempo” (sub specie temporis)”: una temporalità che impronta l’arte nella sua cifra descrittiva, il diritto nella sua genesi ed evoluzione collettiva, la religione nel suo legame con i ritmi delle stagioni e con le tappe della vita, il destino stesso di Roma bipartito tra il prima e il dopo della sua fondazione (ante e post urbem conditam).

Ma è nella lingua che la dimensione del tempo risulta più evidente e convincente: lingua verbale, la latina, perché tutta incentrata sul verbo, «angelo del movimento che dà spinta alla frase», come lo definiva Baudelaire. Lo vediamo nella sintassi: la maledetta consecutio temporum di memoria ginnasiale non è forse la più conclamata applicazione di questa ferrea legge del tempo? D’altra parte, alla frase gerarchica di Cicerone, espressione e riflesso dell’equilibrata età repubblicana in cui i vari ordines si coniugavano in pur difficile convivenza, subentrerà la sententia di Seneca, vale a dire la frase breve, staccata, acuminata, tutta costruita su antitesi e simmetria: segno della frattura che si era creata con la fine della Repubblica.

Questo acuto senso del tempo era connaturato a un popolo che faceva della “tradizione” la propria religione principale: perché, secondo il felice aforisma di Gustav Mahler, «la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». Una civiltà, quella romana, che, grazie a questo culto e a questa forza del servare, rispetterà e assimilerà tutte le altre civiltà conquistate dalle aquile imperiali.

Noi siamo naturaliter storia e memoria, e natura non facit saltus.

Chi stacca la spina della storia e della memoria ha una sola alternativa: essere ignorante o suicida.

Il latino mi ha insegnato la nobiltà della politica. La lingua latina manifesta il carattere pragmatico di quel popolo che definiva la rivoluzione con res novae(“avvenimenti inauditi”) e la storia con res gestae (“opere compiute). Tra tutte le espressioni in cui ricorre la frequentissima e latinissima parola res, quella che mi ha dato sempre più a pensare è res publica: “la cosa pubblica, la proprietà comune, il patrimonio di tutti”.

Questa res publica esige come primo valore la virtus, che non significa “virtù”: significa “impegno”; quell’“impegno” che trova il suo esercizio più compiuto nel “governo della città” (gubernatio civitatis).

Roma segna inequivocabilmente il primato della politica sulla vita dell’individuo. L’uomo romano è prima di tutto cittadino, civis; il suo modello è Enea, il quale subordina e sacrifica le esigenze personali, l’amore per Didone, alla vocazione politica, la fondazione di Roma.

E questa virtus del civis verrà ricompensata, perché la politica rappresenta l’espressione più nobile dell’uomo. Lo apprendiamo nel ciceroniano Sogno di Scipione, dove si dice che a tutti coloro che avranno esercitato l’arte della politica a favore della patria e del bene comune è assicurato un posto in cielo.

Ma questo latino riguarda solo il filologo classico, o tutti noi?

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Il latino non è né un reperto archeologico, né uno status symbol, né un mestiere per pochi sopravvissuti; e neppure una materia; il latino è un problema, in senso etimologico; è una sorta di “pietra di inciampo” che riguarda tutti noi: non solo perché matrice della nostra lingua, non solo perché segno della cultura della nostra Europa che ha ininterrottamente parlato latino fino a tutto l’Ottocento per il tramite della Chiesa, dell’Impero e della Scienza, ma anche perché strumento e veicolo della trasmissione e dell’eredità del sapere di Atene e Gerusalemme: della sapienza classica e giudaico-cristiana. Come dire: la lingua latina oggi non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad essa.

De nobis fabula narratur: questo racconto parla di noi.

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